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Maria Teresa Benedetti







  • Beatrice ricerca l’ombra, fa emergere da essa i caratteri intensamente personali della sua esperienza, la realtà esteriore è soltanto un punto di partenza, in nessun caso fine a se stessa. Scruta nella penombra della coscienza, porta in superficie il suo segreto e, dopo aver riprodotto accuratamente oggetti del mondo esteriore, cerca equivalenti alle proprie emozioni fra la tensione dell’oscurità e lo scoppio della luce.
    Marcel Proust ne Il tempo ritrovato ha affermato che chi si contenta di descrivere le cose, dando di esse un semplice compendio di linee e di superfici, le impoverisce irrimediabilmente, interrompe ogni possibilità di elevare lo spirito nella regione del mistero. «Veri parassiti dell’oggetto coltivano l’arte in un ambito esclusivamente visivo, chiudendo a tutto ciò che sarebbe in grado di imprimere, anche nelle cose più modeste, la luce della spiritualità». E Odilon Redon, se da un lato incita a tenere gli occhi aperti sugli aspetti della realtà concreta, senza la quale ogni concezione resterebbe allo stato di astrazione, dall’altro apre all’immaginazione, all’imprevisto dei nostri sogni, senza i quali l’opera d’arte non avrebbe alcuno scopo.
    Associando forze consce e inconsce, Beatrice allea espressioni plastiche singolarmente coerenti ad affascinanti moti di vita segreta. I suoi disegni si impongono per la certezza del tratto, la capacità di operare una metamorfosi del quotidiano attraverso immagini che emergono improvvise. Lo sguardo fissa le forme della natura e le spoglia, rivelandone l’ambiguità e l’artificio, sottraendole a ogni accidentalità. Presenze imperiose e sigillate sono connotate da un’elusività che allea gamme tonali e strutture grafiche legate a una realtà attentamente osservata a un mondo fantastico.
    Sono disegni muti, misteriosi, dotati di un loro esoterismo, sorprendenti per intensità, esemplari di un lavoro casto e severo, che mira a compiere, con pazienza e tenacia, un’indagine in profondità, dove la forma non è nel tratto, ma all’interno di esso. Lavoro solitario, privo di corrispondenze dirette, animato da una disciplina volta a rincorrere una verità che appare protetta da un suo segreto. La scelta del disegno conferma la nobiltà di una tecnica esaltata da Ingres come «meraviglia dello spirito umano» e la predilezione per il nero – sorprendentemente definito da Renoir come «il più bello dei colori» – è la stessa che ha aiutato Redon a individuare la natura dell’invisibile.
    Fogli ora lisci, ora scabri propongono immagini di conchiglie, di cardi puntuti, qualche vaso, bottiglie di matrice cézanniana, piccole ciotole, fogli accartocciati, foglie secche. Conchiglie dalle forme compatte e armoniose, felici in una perfetta, barocca rotondità, risultano talora corrusche nella ferocia di dentate mostruosità. Una di esse, fra le più belle, è dedicata a Osip Mandel’štam, il grande poeta e dantista russo, vittima della rivoluzione, che in una sua lirica paragona sé e la sua sofferenza a «una conchiglia senza perle» gettata nella voragine dell’universo. Una sintesi poetica di rara efficacia si individua ne La cena (2006), disegno che evoca con depurata semplicità e riflessi cangianti l’episodio evangelico. E, a concludere l’arco di un rapporto con una natura ricca di significati traslati, è il brillio drammatico della Corona di spine (2006), sigillo sintetico ed emblematico di una straordinaria avventura di dolore e di amore. Emile Zola ha sostenuto che l’arte può essere considerata come «esperienza della vita filtrata attraverso un temperamento». E l’arte di Beatrice denota un acuto senso di introspezione, testimoniato anche da quell’occhio che nell’Autoritratto a 40 anni (2006) sembra scrutare il mondo ma, soprattutto, scruta se stessa.






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