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Guido Giuffré
Con la grafite Beatrice raggiunge una densità e si direbbe una perfezione ammirevoli. L’oggetto resta del tutto assorbito dagli elementi della forma – essenzialmente la luce e l’ombra – che insieme lo determinano e lo trasfigurano; esso rinasce come purificato, in perfetta equidistanza tra la realtà della natura e quella dell’emozione; la realtà appunto trasfigurata dell’arte. La conchiglia, l’uovo, la mela, i fiori, il vaso di vetro, vivono nell’evocazione della luce che intreccia sulle superfici vicende innumerevoli, apre gole fosche, spalanca abissi, o trae imponderabili luminescenze che crescono, dilagano, esplodono in abbagli di folgori taglienti. Lo spazio non è ribalta che si ritrae lasciando campeggiare l’oggetto, né questo è personaggio che subordina a sé quanto lo circonda. L’uno non vive senza l’altro, che ne accoglie e ne protegge il respiro, gli echi, le ansie. Come gli specchi in certi quadri fiamminghi, l’oscurità che circonda queste reliquie nasconde o rivela presenze segrete; ma soprattutto sensi riposti, attese, silenzi. In questi silenzi e attese, nella magica sospensione di ogni voce o suono dell’oggi, l’oggi ritorna anch’esso trasfigurato: fatto pensiero e incantamento. Il messaggio di Beatrice Cignitti ci giunge – nel tempo che stiamo vivendo – quanto più desueto, tanto più prezioso; come preziosi e rari sono questi disegni: per la parola che pronunziano e per il suo suono ineffabile.
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