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Gabriele Simongini



NEL GREMBO DELLA NOTTE







  • Se un giorno notturno e una notte diurna potessero abbracciarsi

    "Bisogna rispettare il nero. Nulla lo prostituisce. Non deve piacere agli occhi o svegliare alcun senso. E’ l’agente della mente molto più del bel colore della tavolozza o del prisma”.
    Odilon Redon


    “… il disegno l’arte divina, base di ogni costruzione plastica, scheletro di ogni opera buona, legge eterna che ogni artefice deve seguire. Il disegno, ignorato, negletto, deformato da tutti i pittori moderni {…} il disegno, dico, tornerà non di “moda”, come oggi usan dire quelli che parlano di avvenimenti artistici, ma tornerà per necessità fatale, come una condizione sine qua non di creazione buona”.
    Giorgio de Chirico







    L’amplesso fecondo e inesauribile, talvolta conflittuale, fra luce ed ombra, fra notte e giorno, volti a dare forma al mondo, è l’autentico e sensuale protagonista delle opere di Beatrice Cignitti. E’ un’unione pulviscolare, atomistica, stretta in un abbraccio di particelle scintillanti, che danno corpo d’immagine ad un desiderio ascetico ma profondissimo. Come cantava Friedrich Schelling, “Se nella notte stessa sorgesse una luce, se un giorno notturno e una notte diurna potessero abbracciarsi, sarebbe infine lo scopo supremo di tutti i desideri”. E come sa bene Beatrice, il vero desiderio si nutre al tempo stesso di una presenza e di una assenza e quest’ultima, tramata d’invisibile, nutre i suoi disegni ed apre la porta al mistero. La memoria di un’assenza è del resto all’origine di quello che è ritenuto il mito fondativo dell’arte occidentale, basato tra l’altro proprio sul disegno: secondo una leggenda tramandata da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”, i Greci attribuivano l’invenzione della pittura, o meglio del disegno, ad una donna innamorata, la figlia di Butade Sicionio, un vasaio di Corinto, che per conservare un ricordo del suo amato in procinto di partire, “tratteggiò con una linea l’ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di una lanterna”. Così, si disegna veramente solo non vedendo o meglio, come nel caso della Cignitti, fuggendo la luce accecante del giorno per cercare le ombre della notte interiore e chiudere gli occhi per vedere, senza però rifugiarsi nel delirio della visione sradicata dalla realtà tangibile. E a tal proposito vengono alla mente i mirabili versi di Novalis, dagli “Inni alla notte”: “Ma più celesti/più ancora del brillio di tutte le stelle/ sfavillano in noi come occhi/infinite luci/ che la notte ci ha aperto nel cuore”. Su tale via, i disegni di Beatrice prendono forma come soglia fra interno ed esterno, fra visibile ed invisibile, fra apparizione e scomparsa, soprattutto nelle opere più recenti, quelle che hanno come riferimenti di partenza le sculture di Pietro Cenedella (artista bresciano del ‘900 che meriterebbe rinnovata attenzione) e soprattutto i lavori del titanico Auguste Rodin: mutatis mutandis, e pur nelle grandissime differenze di ricerca, in entrambi gli artisti emerge con chiarezza quella sorta di crescita organica della forma plastica che ha colpito Beatrice Cignitti. E d’altro canto la stessa scultura in marmo non fonda una parte fondamentale del proprio palpito vitale nella dialettica fra il bianco della materia e il nero delle ombre e dei vuoti? Se non ci si lascia ingannare dalle apparenze si scopre che il nero inseguito da Beatrice è sempre innervato dalla luce per sua mirabile natura e a ciò giova la profonda consapevolezza con cui l’artista usa la grafite, ben sapendo che essa, come ha spiegato Omar Galliani, “in origine è uno stato geologico che precede di milioni di anni, come compressione terrestre, il diamante, il minerale più puro e trasparente per eccellenza. La grafite sembra totalmente altro, appare nera come il buio, ma se la guardi è luminosa, riflette la luce”. Questo nero fotosensibile ed onnicomprensivo (non ci sono forse tutti i colori e volumi in potenza?) è fecondato da un lumen palpitante, un grembo che genera gli oggetti e le presenze che popolano il mondo intimo e appartato di Beatrice, la quale sempre più, col passare del tempo, sembra affrontare la sfida di “scolpire” questa luce nera col disegno, abolendo la linea che chiude e delimita e tentando di sottrarre all’oscurità dell’oblio quanto l’uomo e la natura hanno creato. Nelle forme affioranti dal buio, trepidanti per la propria fragilità, Beatrice Cignitti cerca conforto di fronte alla notte che incombe inevitabile sulle nostre esistenze. Incamminatasi con ascetica umiltà e ferrea tenacia, incurante delle mode, su una via che non ammette scorciatoie e che si tiene al difficile, quest’artista così sensibile (il cui stesso aspetto esteriore riflette gradevolmente la polarità “bianco/nero” del suo percorso creativo) aspira alla necessità assoluta che potrebbe unire indissolubilmente la tecnica e la materia con l’affioramento e lo svelamento del proprio essere più profondamente abissale ed autentico, in costante divenire. E’ la ricerca estenuante del creare raggiungendo quella sorta di naturalezza organica che si manifesta, ad esempio, in sommo grado nelle conchiglie, a cui Beatrice ha dedicato opere quanto mai avvolgenti, forse pensando anche alle inarrivabili riflessioni di Paul Valéry: “Un cristallo, un fiore, una conchiglia emergono dal consueto disordine dell’insieme delle cose sensibili e ci offrono stranamente unite, le idee di ordine e di fantasia, di invenzione e di necessità, di legge e di eccezione; nella loro forma troviamo, da una parte, la parvenza di un’intenzione e di un’azione che le avrebbe plasmate al modo in cui sanno farlo gli umani e, dall’altra, l’evidenza di processi a noi vietati e impenetrabili”. Valéry notava che la modalità con cui nasce la conchiglia è che “emana da un mollusco” e ciò la fa trasudare dai suoi pori sotto l’impulso di una necessità assoluta. “Forse – scriveva ancora l’insigne autore francese - quel che chiamiamo la perfezione nell’arte (che non è ricercata da tutti e che più d’uno disdegna) non è che il desiderio di trovare, in un’opera dell’uomo, questa certezza di esecuzione, quella necessità d’origine interna e quel legame indissolubile e reciproco della figura con la materia che la più piccola conchiglia mi mostra?”. Queste parole illuminanti di Valéry si adattavano perfettamente alla scultura di Rodin (come non pensare, ad esempio, a “La conchiglia e la perla”) le cui figure femminili sono le più recenti apparizioni proprio nei disegni di Beatrice, che ha colto istintivamente, nel corso del tempo, tale continuità plastico-organica fra forme necessarie: le conchiglie e le opere di un uomo che col marmo sapeva dire tutto di un corpo, fra presenza e assenza, attraverso la poetica del frammento. E così promana un eros soavemente notturno, tramato di un pulviscolo stellare, in questi corpi necessari, avvolgenti, che vien voglia di accarezzare nel buio, a occhi chiusi, prima che scompaiano, aspettando che il marmo si tramuti in carne e poi, ancora una volta, in traccia di mano che col disegno dà forma al mondo.


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