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Arnaldo Romani Brizzi



LA LUCE DELLA NOTTE







  • La manifestazione folgorante di una luce che nasce dal buio colma il pensiero compositivo dell’opera di Beatrice Cignitti. Come se, nottetempo, ella avesse avuto un contatto visivo con il sogno della sua pittura, il nero delle matite su carta si rende veicolo di una luce che in condizioni diverse sarebbe stato difficile immaginare. La poesia di Beatrice Cignitti è quella dei silenzi delle cose immobili; cose semplici, tanto semplici, che, però, nello sfarzo dei giochi chiaroscurali si colmano di mistero, divengono elementi di un formulario magico, acquistano un’identità altra da quella delle proprie origini. Nel solco di una tradizione italiana, che da Morandi arriva sino a Ferroni, Beatrice Cignitti aggiunge all’ambito delle vite silenti, nei suoi disegni alteri, il senso di una provenienza da un’altra dimensione, da un altrove che è proprio del mondo delle idee. Delle idee ossessive che necessitano di una continua ripresa di attenzione, nella diversità della collocazione e delle combinazioni, per ottenere il raggiungimento della reale comprensione della loro forma e composizione materica. L’occhio di Cignitti è un occhio di assoluto pittorico: al vero pittore interessa sempre e principalmente la luce. E, aggiungerei, l’ombra che ne deriva. Per lui le cose sono quello che sono e acquistano importanza e valore solo a fronte della loro posizione rispetto a una fonte luminosa. Ecco, quindi, che inevitabilmente la scelta narrativa tende al riduzionismo. Pochi elementi in campo, pochi oggetti su cui l’osservazione metodica e assoluta dell’occhio di Cignitti eleva a potenza l’ossessione di uno scavo in profondità, in quella che potrebbe essere la “psicologia dell’oggetto”. Una bottiglia, dunque, una conchiglia, tradizionalmente, e poi una ceramica berbera, una aggiunta “esotica”, lievemente straniante la messa in scena degli elementi. In questo contesto di riduzione, Beatrice Cignitti mette alla prova e potenzia la capacità naturale del suo sguardo di creare sospensione, un continuo stato di attesa che non sapresti dire da cosa possa specificamente nascere, ma che avverti come uno stato d’animo inevitabile. Sarà lo scavo nel buio e nel nero di una grafite che esibisce frottage, tessitura da incisore che vede il mondo attraversato dall’intreccio dei segni stabiliti dal proprio strumento; sarà che ti domandi il reale luogo di provenienza della luce, la fonte non facilmente individuabile; o anche l’emissione dell’aura posseduta dagli oggetti stessi, e che nei disegni a matite colorate appare d’improvviso, flagrante… Ma ti sembra di immediata comprensione che non ci si può, non ci si deve arrestare a ciò che appare. Come se gli oggetti delle sue nature morte stessero lì a simboleggiare altro da sé, a darsi per metafora, a indicare che ogni cosa a questo mondo è riflesso di ben altro, che spesso ci vergogniamo di nominare, ma che è sicuramente, e se non altro, il principio creativo. Ecco, dunque, un nodo complesso a raccontarsi, a interpretarsi. Da dove proviene la luce dei disegni di Beatrice? Più si guardano e più si è incerti a definirne l’origine; fino al punto in cui non si può più fingere con se stessi e si è costretti ad ammettere che quella luce è come lo sguardo divino che permea di vita, rendendola possibile al concepimento. Vita che genera, dunque: vita silente, pertanto, non natura morta. Tutto questo con poco, come si è visto. Eppure il segreto è tutto qui: scoprire che la semplicità è già un raggiungimento importante, perché essere semplici non è facile. E Beatrice Cignitti, per sua umana natura, sembra riuscirci per naturale predisposizione.

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